Fra i cantieri miliardari annunciati dal Louvre, una voce autorevole scompagina le certezze: l’esperto di arte rinascimentale Silvano Vinceti afferma che la Gioconda esposta a Parigi non sarebbe di Leonardo da Vinci, ma del suo discepolo Gian Giacomo Caprotti, il Salai.
Il nuovo libro di Silvano Vinceti e la tesi che ribalta la storia
Il volume appena arrivato in libreria, “La Gioconda svelata” (Susil Edizioni), raccoglie oltre dieci anni di analisi di archivi, test radiografici e comparazioni stilistiche. Vinceti vi propone una tesi che, se verificata, riscriverebbe un capitolo di storia dell’arte: la tela oggi protetta dietro vetro blindato al Louvre sarebbe una copia d’autore, realizzata dal Salai intorno al 1518, mentre l’originale di Leonardo resterebbe disperso. Il ricercatore sostenta l’ipotesi con un dossier fitto di riproduzioni di documenti, stralci di testamenti e resoconti di restauri ottocenteschi.
La pubblicazione giunge in un momento particolarmente sensibile per il Louvre, che ha appena annunciato un maxi intervento da 400 milioni a un miliardo di euro per riorganizzare l’area dedicata alla Monna Lisa. L’eco della tesi di Vinceti, circolata in anteprima fra curatori e sponsor, rischia di innescare discussioni su assicurazioni, prestiti, flussi turistici e persino sull’opportunità stessa di investire somme così ingenti su un quadro che, qualora fosse confermato come opera derivativa, cambierebbe peso culturale e valore di mercato. Il dibattito si preannuncia acceso.
Un allievo dal talento controverso
Al centro del saggio si staglia la figura di Gian Giacomo Caprotti, entrato nella bottega di Leonardo dodicenne e rimastovi per più di vent’anni. I contemporanei lo descrissero di aspetto androgino, insolente e al tempo stesso dotato di una mano sorprendente nel replicare il tratto del maestro. Leonardo, nei suoi appunti, lo definì «ladro, bugiardo, ghiotto e ostinato», ma non smise mai di affidargli compiti di responsabilità, a riprova di un rapporto complesso, forse persino affettivo. Vinceti ipotizza che proprio questa vicinanza lo abbia reso il candidato ideale per produrre una copia quasi indistinguibile della Gioconda.
Secondo il ricercatore, il Salai non soltanto avrebbe posato più volte per il volto enigmatico di Monna Lisa, ma, grazie alla pratica quotidiana accanto a Leonardo, avrebbe acquisito la capacità di gestire i medesimi sottili passaggi di velature e di lumeggiature sfumate note come sfumato. Le cronache di bottega citate nel volume raccontano esercizi sistematici su volti femminili e paesaggi, un carteggio di modelli che dimostrerebbe quanto Caprotti fosse in grado di riprodurre ogni dettaglio, dall’incarnato lattiginoso fino ai minuscoli riflessi del paesaggio lacustre sullo sfondo.
Documenti d’archivio e indagini tecniche
Un tassello decisivo nel mosaico argomentativo di Vinceti è rappresentato da un atto notarile del 1518 rinvenuto negli Archivi Nazionali di Parigi. In quel foglio si registra il pagamento di 2.604 lire francesi da parte di Francesco I direttamente al Salai in cambio di tre dipinti, fra i quali è esplicitamente citata una Gioconda. Una somma tanto ingente destinata a un semplice assistente, osserva l’autore, sarebbe difficilmente giustificabile se si fosse trattato di opere minori; da qui la deduzione che Francesco I ritenesse quella versione il capolavoro ormai leggendario.
Il museo parigino, ricorda Vinceti, ha per lungo tempo accolto questa anomalia definendola una generosa ricompensa per un allievo del genio toscano, ipotizzando che le tele fossero comunque autografe di Leonardo. Tuttavia, nessuna perizia indipendente ha mai confermato questa interpretazione, e il documento rimane l’unico a legare in modo diretto il Salai alla vendita di una Gioconda. L’autore ritiene che la crudità di tale evidenza archivistica, sommata alla totale mancanza di riferimenti coevi su un passaggio di mani dell’originale dipinto da Leonardo, alimenti fortemente il sospetto di uno scambio fra le due opere.
Il furto del 1911 e i dubbi sulla perizia
La storia della Gioconda subì un brusco scossone il 21 agosto 1911, quando la tela sparì dalle sale del Louvre. La narrazione più diffusa attribuisce a Vincenzo Peruggia l’ardito furto, ma Vinceti ripesca testimonianze d’epoca che indicano nei fratelli Lancellotti i veri artefici dell’operazione, con Peruggia nel ruolo di complice marginale. L’indagine venne chiusa in fretta, e quando il quadro fu recuperato, una commissione di tre esperti autenticò l’opera in base a criteri oggi considerati fragilissimi: semplici confronti visivi e qualche appunto sui materiali della cornice.
A distanza di oltre un secolo, sottolinea il ricercatore, quella certificazione non resiste più a un’analisi scientifica. Non furono eseguiti esami stratigrafici, né confronti pigmentari con dipinti autografi di Leonardo. Per Vinceti, questa zona d’ombra aumenta la probabilità che i ladri avessero prelevato una copia, riportandola poi all’attenzione delle autorità quando la pressione si fece insostenibile. Se l’opera trafugata era già la versione del Salai, l’intero episodio avrebbe contribuito, paradossalmente, a consolidare un errore di attribuzione anziché a smascherarlo.
Stratificazioni pittoriche e scoperte nascoste
Le analisi eseguite con tecnologia multispettro da Pascal Cotte, fondatore della società Lumiere Technology, hanno rivelato tre differenti stesure sotto la vernice attuale. Nel terzo strato, la silhouette di una giovane donna emerge con tratti mutati rispetto alla Monna Lisa che tutti conoscono: postura diversa, volto più acerbo, colonne laterali abbozzate. Vinceti interpreta questa immagine come un esercizio di bottega, ricalcando la prassi con cui gli allievi realizzavano copie partendo da cartoni del maestro per poi sperimentare varianti personali. Una procedura abituale nelle scuole rinascimentali.
Ulteriore conferma arriverebbe da un disegno scoperto sotto una tela di El Greco, studio preparatorio attribuito nel 1960 dal grande studioso leonardesco Carlo Pedretti proprio a Leonardo. Lo schizzo raffigura una Gioconda più giovane, incorniciata da due colonne, dettaglio assente nell’attuale versione del Louvre. Questo materiale, esaminato nel libro, suggerisce che l’idea iniziale di Leonardo seguisse un’impostazione differente, poi reinterpretata dal Salai. Se così fosse, quanto resta oggi sul tavolato del Louvre sarebbe l’esito di una rielaborazione scolastica più che l’autentica intuizione del maestro.
Simboli cifrati e paesaggi svelati
Non mancano i misteri numerologici. Nelle pupille della Monna Lisa Vinceti ha individuato, con ingrandimenti ad altissima definizione, le lettere «S» e «L»; su una delle arcate del ponte a destra spicca inoltre il numero 72. L’autore ricostruisce i significati cabalistici di quest’ultimo, collegandolo a speculazioni neoplatoniche diffuse alla corte sforzesca e a un dipinto di Leonardo noto come “Angelo incarnato”, in cui proprio il Salai avrebbe posato. Messaggi cifrati che, secondo Vinceti, rappresenterebbero un dialogo segreto fra maestro e discepolo.
Altrettanto eloquente è il paesaggio alle spalle di Monna Lisa. Vinceti lo rilegge come una sorta di diario di viaggio: vi riconosce il passaggio alpino del Moncenisio e il profilo del monte Rocciamelone, che Leonardo avrebbe osservato durante il suo ultimo tragitto dall’Italia alla corte di Amboise. E ancora, il ponte ammantato di nebbia identificherebbe il Romito di Laterina, in provincia di Arezzo, parente stretto di quell’altra struttura fluviale immortalata con il numero 72. Questi indizi paesaggistici, sostenuti da rilievi topografici, legano la mano che dipinse l’opera a chi accompagnò il maestro su quelle strade: il Salai.
Le domande ancora aperte
Dopo aver allineato reperti, radiografie e carte d’archivio, Silvano Vinceti non pretende di aver pronunciato l’ultima parola, ma invita storici, chimici, restauratori a un confronto serrato. Se la tela del Louvre fosse davvero una straordinaria replica del Salai, la vera Gioconda di Leonardo potrebbe trovarsi in qualche collezione privata, dimenticata in un caveau o forse perduta per sempre. L’idea stessa che un simile tesoro possa riemergere all’orizzonte scuote tanto il mondo accademico quanto il mercato internazionale dell’arte. Un mistero che avvince.
La prossima tappa del dibattito sarà a Piazza Navona, dove a metà settembre il libro diventerà una mostra immersiva: proiezioni in grande formato, riproduzioni di documenti e un percorso multimediale ripercorreranno la vicenda con l’intento di coinvolgere pubblico e studiosi. L’enigma del sorriso, dunque, si rinnova, ricco di nuove domande: chi riconosceremo dietro quel volto enigmatico fra cent’anni? E in quale tela pulsano davvero i pigmenti manipolati da Leonardo? Interrogativi destinati a restare vivi finché il mistero non troverà, ammesso che esista, una risposta definitiva.