Siamo di fronte a uno di quei momenti in cui la cronaca brucia più in fretta delle nostre tastiere. Nella serata di sabato 14 giugno, il premier israeliano Benjamin Netanyahu è apparso in video e ha scagliato parole di fuoco: «Colpiremo ogni sito e ogni obiettivo del regime degli ayatollah». Un annuncio che non è rimasto lettera morta: dopo le incursioni aeree già compiute contro impianti militari e nucleari iraniani, Gerusalemme si dice pronta ad alzare ulteriormente il tiro. A voi lettori, che forse vi chiedete quanto lontano possa spingersi questa partita, diciamo subito che la posta in gioco tocca la sicurezza dell’intero Medio Oriente.
Vi sembrerà quasi un déjà‑vu, ma stavolta i numeri fanno tremare: l’Iran ha risposto con oltre un centinaio di missili e droni diretti verso Tel Aviv, Haifa e altre città, uccidendo almeno dieci persone e ferendone più di cento. Nei cieli dell’alba di domenica si sono incrociate le scie dei vettori iraniani e quelle degli intercettori israeliani, mentre le sirene mettevano in allerta milioni di civili. A ogni esplosione – vicina o filtrata dagli schermi dei social – si è capito che non parliamo di schermaglie: siamo nel cuore di un duello che rischia di trascinare l’intera regione in un vortice di ritorsioni.
Le radici dell’escalation: un attacco che cambia le regole
Torniamo indietro di ventiquattr’ore. Venerdì 13 giugno, Israele lancia Operation Rising Lion: oltre una dozzina di obiettivi colpiti in Iran, dai centri di ricerca nucleare di Natanz ai depositi missilistici fuori Tabriz. Secondo fonti di intelligence occidentali, Mossad e Aeronautica avrebbero neutralizzato figure chiave del programma balistico iraniano, ridisegnando il quadro strategico in poche ore. A differenza di operazioni precedenti, stavolta Tel Aviv non ha cercato la “plausible deniability”: ha rivendicato apertamente i raid, segno che Netanyahu ha deciso di giocare la carta della deterrenza spettacolare.
Ecco il chi e il cosa. Ma il perché? Nei corridoi della Knesset si parla di “minaccia esistenziale” legata all’arricchimento dell’uranio iraniano, mentre lo staff del premier ripete che Teheran è «a un passo dalla bomba». Nello stesso messaggio televisivo, Netanyahu ha rincarato: «Nei prossimi giorni vedrete i nostri piloti nei cieli di Teheran». Una frase che tocca corde emotive profonde in Israele, dove l’eco degli attacchi di Hamas del 2023 resta vivissimo, e al tempo stesso getta benzina su un incendio regionale già ardente.
La risposta di Teheran e la notte dei missili
Quando le prime foto dei raid su Tehran hanno fatto il giro del mondo, la Guardia Rivoluzionaria ha attivato le batterie di Fateh‑110 e Sejjil. I lanci hanno oltrepassato l’Iraq e raggiunto la costa mediterranea, costringendo milioni di israeliani nei rifugi. Pur intercettandone la maggior parte, il sistema Iron Dome non è stato infallibile: a Ramat Gan un condominio è stato sventrato, a Haifa le schegge hanno centrato un autobus scolastico. Lo stesso Netanyahu ha dovuto riunire il gabinetto di guerra in un bunker a Gerusalemme ovest.
Fuori dal duello balistico, la diplomazia correva. A New York il Consiglio di Sicurezza dell’ONU si è riunito d’urgenza: l’ambasciatore iraniano ha parlato di «dichiarazione di guerra», mentre gli Stati Uniti invitavano Teheran a «tornare al tavolo nucleare». Da Bruxelles è arrivata la condanna “nella forma più forte” contro la spirale di violenza, con l’Alto Rappresentante UE che ha chiesto a entrambe le parti di “fermarsi sull’orlo dell’abisso”. Parole che, al momento, risuonano come un’eco in un deserto di bombe.
Voci dal fronte e ferite aperte a Gaza e Libano
Mentre i riflettori mondiali puntano su Teheran e Tel Aviv, la Striscia di Gaza continua a sanguinare. A metà maggio il villaggio di Khuza’a è stato praticamente cancellato dalle mappe: analisi satellitari mostrano crateri al posto di scuole e cliniche, ulteriore prova di una devastazione che l’ONG Amnesty definisce «distruzione indiscriminata». Sullo sfondo, i dati ACLED indicano che maggio 2025 è stato il mese più letale dell’anno per i civili palestinesi, con oltre 1 800 vittime accertate. Non è un dettaglio: questo dolore alimenta l’odio che oggi esplode su scala regionale.
Non basta. Al confine nord, Hezbollah osserva e calibra le proprie mosse. Negli ultimi mesi Israele ha colpito ripetutamente le retrovie del movimento sciita nei sobborghi di Beirut; i vertici del partito‑milizia sono decimati, ma la minaccia di migliaia di razzi resta sul tavolo. Analisti australiani notano che il conflitto con l’Iran ha reso Tel Aviv sempre meno incline ad ascoltare Washington, mentre l’asse con gli USA si sfilaccia sotto i colpi della realpolitik. Se il fronte libanese dovesse riaprirsi, ci ritroveremmo in un teatro di guerriglia su tre livelli: Gaza, Libano, Iran.
Le reazioni internazionali e il ruolo dell’Europa
Da Cipro—punto d’osservazione privilegiato sul Levante—il presidente Christodoulides ha rivelato di aver ricevuto «messaggi non specificati» da Teheran da recapitare a Israele, mentre propone un ponte aereo per evacuare civili stranieri. Nel frattempo, le capitali europee si scoprono spettatrici: Parigi e Berlino auspicano moderazione, Londra chiede sanzioni mirate, ma nessuno sembra in grado di pilotare un vero negoziato. In tanti ricordano le telefonate tra Vladimir Putin e Donald Trump, che pure ieri hanno discusso di «nuovi format di dialogo». Contano le mosse, non le parole.
Dagli think tank di Bruxelles arrivano proposte: no‑fly zone umanitaria su Gaza, hotline militare diretta tra Gerusalemme e Teheran, mediazione multilivello con Qatar e Oman. Tuttavia, l’European Council on Foreign Relations ammette che l’UE rischia «l’irrilevanza strategica» se non assumerà un ruolo proattivo, magari sfruttando la leva commerciale. Il tempo stringe: ogni ora di bombardamenti porta a galla nuove vittime, nuove velenose ragioni per colpire di nuovo.
Che cosa può succedere adesso: scenari e domande aperte
Guardiamo al domani con un misto di lucidità e paura. Uno scenario immediato prevede un’ulteriore ondata di lanci iraniani, forse anche attraverso milizie alleate in Siria e Iraq, mentre Israele potrebbe estendere gli attacchi a infrastrutture critiche (raffinerie, centrali elettriche) per piegare l’economia iraniana. Nessuno esclude azioni cyber su larga scala: Teheran dispone di unità dedicate e già parla di «opzioni asimmetriche» che colpirebbero i porti del Mediterraneo. In parallelo, Washington valuta l’invio di una task force navale a protezione del traffico nel Golfo.
E voi, lettori, dove vi posizionate? Vi sentite spettatori distanti o partecipi di un Mediterraneo che vibra a poche centinaia di chilometri dai nostri confini? Forse la domanda più urgente è un’altra: quante vittime serviranno ancora perché le leadership tornino al tavolo? La retorica dei “bersagli legittimi” vacilla di fronte ai volti impolverati dei bambini di Ramat Gan e Khuza’a. A noi—giornalisti e cittadini—spetta il compito di non distogliere lo sguardo, di pretendere trasparenza e compromesso. Perché ogni guerra finisce, ma le sue cicatrici restano e chiedono conto a tutti, nessuno escluso.